ho un armadio di macchine fotografiche.
mi piace la carta.
ecco perchè ho smesso di scrivere e mi sono data alla stampa.

ovviamente sono della peggiore razza.
analogica, solo obiettivi fissi. pellicole 80s.
in valigia due costumi, un paio di jeans e sandaletti da tedesca.
nello zaino tutto il mio armadio di macchine.

ah. dimenticavo.
vado in viaggio di nozze e torno. ehm, torniamo 🙂

una parola un significato. l’equazione è perfetta, la lingua italiana infinita e la bontà di esprimere un concetto non modificando il reale contorno è una capacità propria non tanto delle persone pazienti quanto di coloro che pazientemente illuminano ciò su cui posano lo sguardo.
carpire parole che non siano prese dal vocabolario secondo un impossibile ordine è difficile come scalzare dalla camera il malato allettato. provi pena per lui come per te stessa mentre di fronte allo specchio delle convinzioni sei riluttante a romperlo, attanagliata dal dubbio che la leggendaria scarogna possa ammantarti i prossimi sette anni e propensa a credere che non cambiare le cose sia il miglior modo per non rimanere disorientati.
ti consosci, conosco a menadito la cadenza svogliata delle dita che picchiettano la tastiera e troppo spesso hai solo il vago ricordo di quando quelle dita non subivano il filtro ostativo della tue paure. conosci a menadito il rumore della stilografica che macchia la carta, le impercettibili righe di inchiostro che si allargano sul budello nero che irrefrenabile corre come il vomito dalla bocca del nauseato.
ho fatto e sbagliato.

c’è solo un modo per non tornare indietro. non avere un motivo per voltarsi.

la verità è che la cosa difficile tra mirare e sparare rimane sempre il coraggio di trasfomare uno sguardo in un proiettile. altre verità, in questo gioco, non ce ne stanno.
il cognome è una rogna, non lo puoi come il nome rinfacciare ai tuoi genitori che te l’hanno scelto senza che ti piacesse. il cognome è una vera rogna. comunque, il mio di cognome, mi ha portato veramente bene, bene-meriti problemi logistici. ad esempio quello di mettere insieme il pranzo con la cena. bizzarie alimentari.
la cosa seria del trasformare è che spesso il risultato è irreversibile. a volte però. tipo la macchina incidentata si riaggiusta ma una mela sbucciata non si riveste.
il problema di essere intelligenti è dimostrarlo. ha anche altri inconvenienti ma credo che il primo sia senz’altro darne prova.
siamo uno sbagliato compromesso tra quello che raccontano di noi e quello che vorremmo essere. nè l’uno ne l’altro. mai niente. semplicemente nè l’uno nè altro.

Da ventotto anni parlo italiano e da ventidue lo scrivo. Solo ultimamente mi rendo conto di non averlo mai capito come credevo. Solo ora mi vergogno di aver usato parole il cui significato non mi era (e forse non mi è) chiaro. Di poca difficoltà e sofferta chiarezza sono i concetti posti a fondamento dei miei pensieri.
Elaborazione del lutto. Questa è una di quelle locuzioni che, ancora oggi, mi rimane di difficile comprensione. Non capisco quale procedura evolutiva dovrei compiere intorno alla fine.
Alla stazione dei treni ho assistito ai classici esempi di comportamenti umani che si verificano in un luogo di passaggio. Gente ferma, gente ferma che aspetta, gente ferma che fuma, gente ferma che corre. Gente, quanta gente. Tutti disordinatamente ordinati a fare le loro cose. L’oro di loro.
Non so fino a che punto c’ho provato a cambiare, io che sono arrivata a credere che smettere di fumare dopo dieci anni sarebbe come aver buttato via un mucchio di soldi e continuare invece rappresenti un modo per dare fiducia al mio investimento.
Io l’italiano non ce l’ho. Mi devo concentrare per parlare, faccio una fatica terribile a scrivere. É per questo che scrivo del niente in questo posto. Per esercitarmi. Figurate i se non mi esercitassi che ne uscirebbe.
Mi devo perdonare. Di essere entrata di prepotenza nelle braccia delle persone che stringevano le valige, di essere rimasta impigliata nelle andature delle mamme frettolose, di essermi concentrata sull’immobilità degli studenti con lo zaino in spalla.
Tremo. Tremo bile. Le mani tremano per lo sforzo di non riuscire a tenere tutto, l’inconciliabile con l’impossibile. Lo stomaco si è ribellato come non mai. I sentimenti si sono raggelati come sudore sulla schiena che ha bagnato. Dalla sera alla mattina non cambia mai nulla, nulla di così importante. Quindi se era amore continua ad esserlo comunque.
Ho perso tempo, gli altri con i loro movimenti mi hanno distratto. Insieme ai colori dei loro vestiti, la vanità delle acconciature e l’odore strisciatomi vicino mentre passavano. Ho perso tempo a concentrarmi su qualcuno che non conoscevo, a diventargli amica credendo di poterlo diventare per il solo fatto di volerlo. Ma gli ospiti della stazione non volevano mica che diventassero amici. Mi ero illusa io, di certo più di quanto mi avevano illuso loro.
È così alla stazione dei treni non sono più andata, vuoi perché non volevo più partire ma dovevo restare, vuoi perché gli schiaffi delle porte chiuse mi hanno inibito maggiormente di quanto mi invogliasse fare nuove osservazioni, vuoi perché i treni non arrivavano mai in orario.
Non c’è niente dietro a queste parole, nessun significato che potrebbe essere differente dalla semplice rappresentazione del mio rapporto con la stazione dei treni, nessun modo di reinventare l’antico carpe diem, niente di niente. Solo io, l’italiano maldestro, i treni delle stazioni e i passeggeri.

I

2012/07/26

Da stamattina sono incastrata e incazzata. Incastrata nel traffico straordinario che una città così piccola non dovrebbe avere e incazzata perchè i coglioni di turno mi guardano dentro la cabrio e pensano “se solo potessi scoparla una così”. Incastrata nel parcheggio del tribunale di periferia e incazzata perchè il collega di turno parla stravaccato sul sedile di improbabili transazioni senza sveltirsi nelle operazioni di parcheggiamento. Incastrata nella fila della cancelleria e incazzata perchè sono costretta a respirare il profumo della deficiente che mi precedere e della cretina che mi segue. Incastrata sulla sedia della scrivania e incazzata perchè il telefono è diventato una fucina di problemi. Incastrata pranzerò in macchina e incazzata perchè stanotte sarà la quinta notte che non dormirò. Incastrata a lavorare e incazzata perchè io volevo solo studiare. Incastrata nei ricordi e incazzata perchè sono un incubo che non si vuole svegliare. Incastrata in questa vita che potrebbe essere di chiunque e incazzata perchè io sono migliore di tutti quelli che l’avrebbero vissuta. Incastrata nelle concretezze dei clienti che mi rompono i coglioni e incazzata perchè se il codice di procedura l’avessi scritto io le cause durerebbero il tempo di due strilli. Incastrata nella forma che ho acquisito e incazzata perchè io mi preferivo di gran lunga quando ero una ribelle. Incastrata e respirare e incazzata perchè voglio correre. Incastrata nella mediocrità e incazzata perchè gli altri se la raccontano come ottimale. Incastrata e incazzata. Sono incazzatissima. Incazzatissima da dare ragione a tutti ma da incastrarmi così bene che l’unico pensiero che riesco a formulare è “non cedo, né di un passo né di una virgola, tiro dritto e rompo tutto, non cedo, io muoio ma i Filistei faranno la mia fine, io muoio ma Sansone lo libero, io muoio ma a voi col cazzo che vi permetterò ancora di essere felici”

Casa, oggi

2012/04/15

Cerco un muro bianco come solo una donna sa cercare un uomo. Mi guardo intorno, le mura fuori e i muri dentro. Il ruvido della pietra fa da corteccia al bianco che si presta a questo nero. Una casa non parla fino a quando non puoi ascoltarla e leggerla. Mai senza musica, non più senza parole. La penna perché mente mi insegnavano a fare i tondi e le lineette c’era chi stava imparando il rito. La penna perché se mai decidessi di cancellare questa confusione mi basterebbero pennellate distratte mentre il tempo, seppure utilizzassi tutto il mio impegno, non potrei mai dimenticarlo. Mi ricorderò di questi giorni, in mare aperto sotto un cielo chiuso, a vista senza rotta, placidi come appare tutto fermo dopo che la tempesta si è sfogata. Butto la rete, la tiro a me ogni volta convinta di trovarvi solo acqua e la delusione di vedere dentro un pesce che non sa respirare è pari solo alla mia voglia di donargli almeno un polmone. C’è chi la chiama voglia, chi Carolina, chi virtù. Io la sento e vedo: batte e sbatte, va e torna, incastrata tra i muscoli delle gambe. E quando non c’è non la rimpiango mai. Se è partita è andata da chi ne aveva maggior bisogno. Non la rimpiango perché non si rimpiange mai ciò che si sa con assoluta certezza che tornerà. Preferisco la solitudine alla compagnia maldestra. Preferisco la mia solitudine ove mi trovo sempre. Una vita intera non dura mai quanto riportano i certificati anagrafici, una vita intera a molti che ho incontrato non è bastata a farsi incontrare. La pigrizia di ascoltarsi è intima amica della paura di trovarsi.
Passerà il tempo, l’amore rabbioso, la frenesia degli anni, la sete di vino, l’ora di dormire, un’altra tempesta ed un’altra ancora. Getterò ancora la rete, vi troverò il solito pesce che non saprà ancora respirare, avrò ancora voglia di condividere un polmone. Guarderò le mie mani, loro avranno quarant’anni e io sarò ancora Carolina. Fioriranno voglie nuove, forse mature, meno rampanti. Leggerò nuovi libri, ascolterò nuova musica, parlerò ad altri occhi. Gli eventi si susseguiranno, perché così è stato prima di me e così sarà, mi malgrado. Crederò di essere cambiata, urlerò contro i miei errori, infilerò nuove scarpe da corsa, maledirò i miei azzardi, gioirò dei miei traguardi, sorriderò del tempo passato, saluterò l’amore passato. Trastullerò progetti sempre troppo ambiziosi, avrò un figlio, una macchina sicura mi trasporterà verso una nuova casa.
Avrò cose nuove da indossare.
Vivrò novamente amori a rischio infarto.
Mangerò nuovi cibi dal sapore solo sognato.
Ogni compleanno è una candela, ogni ruga è un sorriso a cuore aperto, ogni capello bianco una preoccupazione lancinante. Attendo buone nuove, con le braccia tese e protese, con la testa alta ed eretta, con la schiena spezzata, e la rete ancora in acqua.
Carolina.

starring

2011/10/13

il prezzo dell’antipatia è la solitudine, così come la solitudine è la conseguenza della sincerità. mi convinco che le occhiaie sono (e non siano) un’opportunità, che avere un caos dentro non significa necessariamente avere delle stelle danzanti nello stomaco. mi convinco perchè le alternative (sia altrui che mie) sono deboli, per eccesso di zelo avverso le scelte inequivocabilmente giuste (il bianco e il nero non ha salvato solo molti stilisti), per amor di patria se io sono (fossi) uno stato. mi accusano (vanno in guerra con il taglierino), o meglio (molto meglio) provano ad accusarmi, di difetti che non conosco. rimprovero, a chi vuole colpirmi (con un taglierino), inneggiando il colpo sui reali talloni d’achille del mio esasperante carattere, della mia vita, del mio esasperato corpo. è sciocco colpirmi sulla sincerità, in quanto a solidità se la gioca con il mio granitico culo. è insensato sperare di colpirmi rimproverandomi lassismo e incentivandomi ad una emancipazione che ha già fallito prima di me. è sciocco colpirmi alle gambe, chiunque mi vede capisce che non è sopra a quelle che mi ripiegherò.
mi sono riempita la bocca per anni e per diverse litigate con la parola libertà senza mai provare a darla fino in fondo, a nessuno dei litiganti, nemmeno ai ricordi, men che meno alle aspettative.
ma alla meta si arriva, se si arriva e si vuole arrivare, nudi. come quando siamo nati, come quando ci rivestono del vestito migliore per lasciarci alla migliore delle vite.
non vedo la meta ma, batto comunque la strada. a volte di corsa, a volte con i piedi trascinati avanti alla scia di loro stessi, a volte con la testa persa dentro i diversivi, a volte con il cuore caduto fino all’ombelico, a volte in volata.
non vedo, perchè gli unici occhi con cui mi è dato guardare sono i miei. sento il peso di tutta la baracca perchè le uniche gambe che battono sono le mie.
la musica, come l’aria, è cambiata.
di colpo la corrente gelata ha spezzato la calura.
in un piccolissimo tempo, talmente tanto piccolo da aver reso il cambiamento ancor più percepibile, da averlo fatto notare sotto la maglietta, nelle vene che stillano gocce di sangue come spilli.
a volte basta poco, figurarsi il niente.
tra la cinta dei pantaloni e il reggiseno le donne hanno la pancia. c’è chi ci cova figli (e ci trova soluzioni), chi ci allena gli addominali (e ci massacra le paranoie) e chi ci si fa nascere idee.

volevo essere bella, lo sono stata.
volevo essere pazza, lo sono diventata.
volevo conciliare un bel po’ di cose, sono tutte cresciute.
continuo a respirare ma non tremo.
non sono un sasso, non sono una persona.
sono un culo di marmo attaccato ad una colonna vertebrale.
sono un gran cervello messo sopra ad un bel culo di marmo.
sono una colonna di carne, sono un peso massimo di sorrisi, sono la maldicenza dentro al pettegolezzo.
egocentrica, egostrabica, egoaltruista.
sono così, e anche se potessi tornare indietro, mi vorrei tale e quale.
festeggio la mia nascita, festeggio la mia rinascita, festeggeranno la mia morte, festeggeranno quando non avrò più forze, non prima.
punto il mio soldo sull’unico cavallo che ha mezzo metro di vene fuori dal collo. punto il mio unico soldo sulla mia unica certezza.
sono un paio di mani bruttissime. sono un paio di mani bruttissime mosse da una visione tutta loro. non ho occhi, le mie mani bruttissime si. vedono prima di me, vedono prima di toccare, vedono anche quando io dormo.
ho paura solo quando non mi fido. devo starmi sempre ben attaccata se voglio fidarmi. se qualcuno mi dice che devo stare tranquilla che mi farà da paracadute ho paura.
diffido, adempio, ringrazio, tolgo il disturbo e il sorriso, lascio il silenzio, batto forte il pugno sul petto di chiunque lo merita.

de-genere

2011/06/16

se voglio scrivere di qualcosa devo essere compiacente con gli accadimenti, scendere a compromessi con il fatto che, per essere raccontati, gli eventi hanno bisogno di essere decantati. non scrivo sull’onda d’emozione, d’impeto, calcando il passo sulla scia del momento. ci devo pensare, devo lasciar sbattere l’idea da un lobo all’altro del cervello, farla trasalire dal cuore, su per l’esofago e rigurgitarla dalle mani solo se digerita, quantomeno borfa di succhi gastrici che l’hanno aggredita tentando di decomporla.

che cazzo ci mettono gli scienziati sopra i vetrini per vedere i mostri? il prodigio starà nelle lenti o negli occhi?

non attendo mai troppo per pensare a qualcosa di cui potrei scrivere. aperta la bottiglia è il vino che si deve ossigenare non la stanza che deve impregnarsi. non lascio passare quel tempo che fa assumere agli eventi i tratti dell’elaborazione, buona la prima (al massimo la seconda se l’interpretazione meritava un bis), ho detto no alla spiegazione di tipo giustificatrice, vado a braccetto con la lettura senza fronzoli.

viviamo in un mondo di decimali, dove un 0, ci incula e dove i numeri primi hanno un peso specifico simile alla storia degli antichi egizi menata alle elementari.

scrivo perchè: non ho tempo, voglio dare un senso confuso alle idee soldatino incastrate nella baraonda quotidiana, ho l’acqua alla gola di chi sa non poter bere e scrivere di tutto il mare, ho il terrore di darmi ragione per parole volate in aria. un frontale ben riuscito è quello che puoi raccontare.

oggi. ore otto e trenta. come ogni volta che guardo l’orologio ho il terrore di essere in ritardo. accendo la moto, per farla uscire dal mio personalissimo parcheggio devo superare una fila di bucato appena steso, respiro il profumo del sapone da discount della mia vicina romena, inforco un paio di curve, mi sorpassa un tipo che crede di essere splendido senza aver fatto nulla per meritare il titolo, allora penso “vieni a conquistarlo”, scalo, lo faccio assalire da un dubbio poco amletico “sarà maschio o femmina?” fino a quando la mia quarta sul misto gli da la risposta che meno gradisce: “stronza”, tiro dritto fino alla mia meta, tolgo il casco, do una botta ai ricci per stemprarli, lui “ti volevo dire che hai una bella moto” io “beh, da dietro non è un gran che e comunque, t’ho concesso l’attenuante solo perchè hai una moto i cui pezzi di ricambio costano come un rene”, il silenzio, grazie a dio si è ricreduto sulle sue qualità.

due traslochi completamente scalza, ogni sasso puntato sotto la pianta del piede mi chiamava a ravvedermi dalla traditio, ogni dislivello sottolineava la perdita di equilibrio.
l’amore nuda. completamente priva di vestiti, a volte paure, altre di voglie.
quando il mondo civile non convivia con me sono solita mangiare con le mani. spaghetti, zampe e testa di gallina, ossa del brodo, morsi alle mele, acqua dal rubinetto del lavandino.
ho conseguito la laurea senza prendere una riga di appunti non avendo mai frequentato una lezione.
ho fatto cazzate senza motivo, ho amato senza senno se non quello amaro del poi, ho pianto senza lacrime.
ho rifatto un muscolo ad una gamba con nemmeno un trattamento di elettrostimolazione.
ho fumato sigarette senza pacchetto, sono entrata senza bussare, ho lasciato passare notti senza sonno, ho passato anni a guidare una macchina senza lo stereo cantandomi da sola le mie canzoni.
ho accettato senza capire.
ho perdonato senza che mi venisse chiesto, sono partita senza destinazione, sono tornata senza alternative.
mi preparo ad un esame senza studiare, mi porto la testa, mai senza quella.
ho preso la prima patente senza avere una moto, ho messo i jeans senza pensare alle conseguenze, ho letto libri senza mai dimenticarli.
ho guardato tutto quello che potevo senza rubare nulla.
ho fatto dolci che non ho mangiato.
ho avuto un cane senza fortuna, una nonna senza la cattiveria dei vecchi, giornate buone senza meritarle.
ho letto poesie senza piangere, ho stretto mani senza presentarmi, ho inseguito i miei piedi senza fiato.
ho sogni senza soluzione di realizzazione, ho giorni senza sole, ho una vita senza pace.